Il quadro di Renato Decristina nella chiesa di S.Leonardo a Tesero

7.305 giorni senza di loro

Settemilatrecentocinque giorni (sì, proprio venti anni) dopo quel 19 luglio 1985 – in anticipo sugli orari delle cerimonie ufficiali, per vedere le cose e le facce prima dell’invadenza delle telecamere e dei telefonini dei giornalisti e degli assessori – ritorni nella valle di Fiemme ancora infreddolita dal temporale notturno: nuvole basse e una foschia che poi il sole – trionfante e innocente come QUEL giorno – diraderà.

Settemilatrecentocinque giorni fa, però, il fiume Avisio non era fangoso e marrone come oggi, sporcato da una forte pioggia estiva: era gonfio di un grigio inquietante e rivoltante, alluvionato dai fanghi minerari della fluorite di Prestavel, che si erano mangiati 268 vite umane. Settemilatrecentocinque giorni dopo, salendo verso Tesero, passi sotto la nuova funivia del Cermis a Cavalese, e pensi che davvero questa bellissima valle ha già pagato un prezzo altissimo alla morte assurda e inattesa come una folgore, alla morte industriale e post-industriale: di miniera, di fune e di jet.

Settemilatrecentocinque giorni dopo, Tesero è un paese ordinato e sonnacchioso, ma non immobilizzato dal lutto cittadino: a parte il manifesto buonista della Provincia (padre e figlia di spalle, che guardano al futuro) e il piccolo avviso listato a lutto del Comune, la vita va avanti come tutte le mattine. Al bar c’è già la tv accesa, una sit-com americana su Canale 5, di quelle con le risate registrate.

Settemilatrecentocinque giorni dopo, QUEL giorno cominci a riviverlo solo camminando sulla via Stava, passando accanto ai vecchi “vòlti” delle case, che il 19 luglio 1985, come grandi oblò spalancati sull’orrore, ti mostravano la grigia fiumana assassina, turgida nell’alveo del rio, mentre le sponde della valle, appena sporcate dal fango, brillavano di verde splendente.

Sulla via di Stava, oggi, prima che comincino i riti, due turiste si scambiano consigli sul soffritto mentre da qualche parte arriva un buon odore antico di letame: giusto così, la vita continua perché – temporaneamente – è più forte della morte.

Settemilatrecentocinque giorni dopo, il vescovo invoca la saggezza, che mancò ai predecessori del piccolo esercito di autorità schierate per il ventennale, perché chi governa il mondo finisce per celebrare perfino i propri fallimenti, gli anniversari dell’insipienza, dell’arroganza, della presunzione, dell’impotenza.

Settemilatrecentocinque giorni dopo quel venerdì nero, la verità di Stava è ancora qui nel piccolo cimitero di San Leonardo, dove dormono i naufraghi travolti dall’onda maledetta: ci voleva un gigante buono come il San Cristoforo del grande affresco sulla parete esterna della meravigliosa chiesetta gotica, per salvarli. Ma dentro, nella Pietà di Antonio Longo, il Cristo deposto in grembo a Maria ha il colore livido del fango di Stava: la morte ha vinto, almeno temporaneamente, perfino il figlio di Dio; volete che risparmiasse i figli dei teserani e dei turisti di Stava? Ma il figlio di Dio aveva resuscitato il suo amico Lazzaro senza aspettare l’ultimo giorno, mentre i figli e i genitori e i mariti e le mogli dei 268 morti a Stava non hanno avuto lo stesso privilegio.

Preghiera dei fedeli: si prega per Papa e vescovo, solo successivamente per le vittime e i familiari. Oggi non sarebbe stato buono e giusto invertire l’ordine di apparizione?

Dormono, dormono, quassù a San Leonardo. Dormono le 71 vittime non identificate, che per chi resta è ancora più penoso piangere, perché sono nomi dispersi tra tanti, senza neppure il povero privilegio di una foto, di un fiore “personale”. Dormono e sorridono, i morti che hanno una tomba e un nome.

Quanto sorridono, le foto dei morti. Forse perché la paura e l’orrore e il dolore di una morte tanto brutale quanto rapida, per fortuna, non durano in eterno. Ma quanto sorridono!

Non ci fai caso finché non li guardi uno ad uno, dalle lapidi adornate di fiori freschi e coloratissimi. Sorride Sandro Paluselli che aveva 14 anni mentre un suo coetaneo di oggi, allievo vigile del fuoco, comincia ad ansimare – forse il sole, o l’emozione più grande di lui. Sorride Giuliana Delladio che ne aveva 12, sorride Michela Piazzi, sedicenne, sorride anche Pasquale Mich, 84 estati prima di quella. Sorridono nella foto delle nozze Gilberto e Doriana Vinante, che avevano 25 e 22 anni. Sorride Manuela Dellasega (23) mentre due donne giovani piangono per lei.

Sorridono in un’altra immagine di matrimonio Luciana e Claudio Pagni, 23 e 22 anni. Sorride Alice Piazzi, che ne aveva solo tre, in un vestitino blu e marrone. Sorride Lucio Deflorian, classe 1937, e sembra sorridere a una nipotina piccola tenuta in braccio, oggi, da un papà che gli assomiglia come una goccia d’acqua. Sorride Maria Grazia, che aveva 40 anni, mentre il suo Filippo, che ne aveva otto, arrampica serio su una roccia, nella foto lì sotto: ha i pantaloni corti, e il maglione annodato in vita. Ha girato la testa per il fotografo – chissà, sarà stato il papà, di solito sono loro che fermano nel tempo le belle facce dei loro maschietti scalatori – guarda l’obiettivo, ma resta serio, il piccolo Filippo che arrampica.

A salire a piedi, sulla strada nuova, da San Leonardo a Stava, mentre volteggia in aria l’elicottero che sbarca il cardinale di Milano; a percorrere metro dopo metro la lunghezza della valle oggi di nuovo amena, ti rendi conto di quanto a lungo abbia falciato, la signora morte, prima di finire il suo orrendo lavoro. A salire a piedi verso Stava, oggi, il Park Hotel Stava, lindo e fiorito, pare immemore della tragedia che ha sbriciolato gli alberghi di vent’anni fa. Un altro hotel, e diverse belle case, sono in costruzione: non è scattata la sindrome della maledizione, la psicosi del luogo sciagurato.

Sia quassù sia a Cavalese ferita due volte nel Cermis, i fiemmesi giustamente vogliono continuare a vivere e a lavorare.

A salire a piedi verso Stava, i canti amplificati della messa grande si cominciano a sentire appena alla chiesetta della Palanca, dopo il monumento donato dai “fratelli di sventura” del Vajont. Dentro ci sono due donne, una bimba e un’anziana, che pregano per conto loro, appartate, senza entrare nella piazza della celebrazione e senza parlare con i giornalisti: il lutto ufficiale non appartiene a loro. Il loro è un privatissimo dolore.

A salire a piedi verso Stava, che vent’anni dopo ha perfino una “piazza”, incontri infine gli assurdi colori pastello, più adatti a un lungomare che a un bosco, degli hotel.

A salire a piedi verso Stava, ti arrivano le parole del vescovo della provincia più straziata dalla strage, quella di Milano: col tono rassicurante del buon curato di Brianza, il cardinal Dionigi ammette che è difficile – davanti alle stragi degli innocenti – credere al Dio della vita e dell’amore, eppure Dio non è indifferente al dolore dei suoi figli. Una ragazza arrivata quassù con la bici da corsa e la maglietta sgargiante lo ascolta a testa china: forse non era nata, settemilatrecentocinque giorni fa. Ma anche lei prega, e ricorda.

Suonano le campane del mezzogiorno, giù a Tesero: dovevano avere lo stesso timbro felice il 19 luglio di vent’anni fa, ma ventidue minuti e 55 secondi dopo cominciava il finimondo. Domani, archiviata la Celebrazione della Sciagura (che già da tempo non emoziona più i tg nazionali, commemoranti il 19 luglio 1992 del giudice Borsellino ma non il 19 luglio 1985 di Stava), domani, settemilatrecentosei giorni dopo, torneremo a dimenticarla a poco a poco, com’è inevitabile, com’è umano, la nostra Pompei di montagna, perché non si può continuare a vivere con un così devastante carico di morte.

Sulla carrabile sassosa che costeggia il rio Stava, ridiscendendo la valle mentre si celebrano i soccorritori (che purtroppo ben pochi “soccorsero”, ma soprattutto ricomposero pietosamente resti di esseri umani, molti consolarono, invece, dei vivi rimasti) finita l’eco delle campane, si torna a sentire il fruscio di un vento leggero.

E forse, se presti attenzione al vento, puoi riascoltare le voci dei 268 che dormono sulla collina.

E perfino sorridono, forse per incoraggiare chi è restato a vivere. Chi ha vissuto, senza di loro, questi settemilatrecentocinque giorni.


Paolo Ghezzi è stato direttore del Quotidiano “L’Adige” dal 1998 all’ottobre 2006.
Ha scritto questo articolo nel Ventennale della catastrofe di Stava.


Il quadro ritratto in immagine, di Renato Decrestina, è conservato nella chiesa di S.Leonardo a Tesero.